Fino ad oggi abbiamo vissuto una quotidianità cinese tra supermercati, mense, banchi della frutta, palestre e biblioteche. Abbiamo deciso sin dall’inizio di dedicare l’ultimo fine settimana che saremmo stati qui a visitare Huangshan, patrimonio dell’Unesco. Le premesse metereologiche non erano delle migliori, infatti in quella zona pioggia, nebbia e vento dominano per la più parte dell’anno, come se la natura volesse celare la sua perla agli sguardi del mare di uomini che quotidianamente si riversano chiassosi per i sentieri del cielo. Per nulla scoraggiati (o forse semplicemente non potendo più rimandare) prenotiamo decidendo di fissare un pernottamento in un hotel in quota a quattro stelle, perché foschi racconti locali riportavano che le categorie in Cina hanno standard molto differenti dai nostri. Partiamo domenica di buon mattino per andare a prendere il pullman in centro ad Hangzhou per poi scoprire, dopo un’ora di frenate improvvise e curve a gomito, che l’autobus si ferma nei pressi dell’università. Passato il labirinto cittadino imbocchiamo l’autostrada e case fatiscenti iniziano a sfilare ai bordi della strada, intimorite ed oppresse dall’avanzata di nuovi giganteschi mostri che si perdono a vista d’occhio nelle zone di espansione della città, così grigi e tristi che a stento si capisce se debbano essere abbattuti o se sono pronti ad inghiottire migliaia di persone nelle loro viscere.
Dopo numerosi colpi di clacson arriviamo a Tunxi, dove una giovane donna ci attende dietro un grande sorriso e un vistoso paio di occhiali quadrati senza lenti. E’ Adah, la nostra guida. Il tempo è uggioso e una volta saliti sulla funivia ci immergiamo in una coltre di nubi che come un bambino nasconde sotto le braccia i suoi tesori per renderli invisibili agli altri. Un po’ scoraggiati ci scambiamo sguardi, ma nel giro di un attimo buchiamo la coltre e lo scenario cambia mostrandosi magnificente come solo di rado capita da queste parti. Siamo arrivati nella dimora degli Dei dove le vette granitiche galleggiano sul mare di nuvole, barriera impenetrabile agli occhi degli abissi sottostanti. Il sole splende terso importunando le rocce scolpite sapientemente dalla natura con quei dettagli che può dare solo chi ha l’eternità a disposizione. Pini millenari si aprono nelle fenditure come ombrelli di dame cinesi. Tutto appare eterno.
Ci incamminiamo per visitare questo luogo accompagnati dal solito continuo mantra shuāngbāotāi (gemelli), le incessanti richieste di fare foto con i bambini e incrociando talvolta i passi curvi ed amari dei portatori barcollanti sotto il peso del bilanciere carico di rifiuti, che gli frutterà un minimo compenso.
A sera arriviamo all’albergo. Non una topaia come paventato, ma di un lusso quasi imbarazzante e fuori luogo in quel contesto. La guida ci ha spiegato che è un “big noses’ hotel” ovvero riservato ai “grandi nasi”, appellativo per noi occidentali. Esagerato e fuori luogo…….ma ce lo siamo goduto!