La ricerca della novità è naturalmente il sale di ogni viaggio, ma è anche bello sapere di poter contare su alcune certezze, soprattutto nei lunghi trasferimenti. Quello fino a Calais è una replica di due anni prima, sempre lungo l’itinerario allungato per stare alla larga dalle carissime autostrade francesi.
Innanzitutto la prima notte sul Passo del San Gottardo, alla ricerca di un po’ di frescura, che quest’anno ci ha però addirittura accolti tra vento, pioggia e nubi basse, con visibilità di pochi metri. Poi i paesini sconosciuti della Germania e del Belgio, lungo il confine con la Francia. Ettlingen, Pirmasens, Bad Bergzabern, Arlon, tutti posti che non degneresti di alcuna attenzione, ma che rivelano sempre qualcosa di interessante, nella loro voglia di mettersi in mostra e valorizzare anche quel poco che c’è.
E poi il rito di Calais, che prevede l’acquisto del biglietto per un ferry al mattino presto del giorno successivo, e quindi la serata godendosi la luce del Nord e il tramonto sulla Manica cenando sulle bianche scogliere della Cote d’Opale. Albione arriviamo!
E poi venne un giorno
Più di due anni a mettere a punto raffinate tecniche di risparmio energetico alla guida. Sfiorare l’acceleratore come se ci fosse un uovo sotto al piede, studiare le mosse di chi ti precede e le tempistiche dei semafori per sfruttare al massimo il recupero in decelerazione. Viaggiare al freddo (fresco?) in inverno e al calduccio in estate. Calcolare maniacalmente le distanze studiando il percorso più breve e centellinare l’energia sfruttando le scie in autostrada.
E poi in un week end scoprire che già oggi di tutto questo se ne potrebbe tranquillamente fare a meno…
PS. Qualche dato tecnico. Circa 800 km, ricariche parziali ai Supercharger di Aosta e Martigny, consumo medio 0,19 kWh/km, due passi alpini > 2000 m, discesa da Passo del Gran San Bernardo a Martigny senza toccare il pedale del freno (solo frenata rigenerativa one-pedal feeling), Martigny-casa (via Sempione) 240 km, utilizzando poco più di mezza batteria
In un paese meraviglioso
A Pasqua, con un cambio di decisione dell’ultimo minuto (il bello del camper…) ci siamo dirottati verso un tour etrusco nell’Italia centrale. Pur da esterofilo convinto quale sono, non posso non riconoscere il valore incommensurabile di ciò che secoli di storia, arte e cultura hanno lasciato in questo maledetto Paese, e ben venga l’apprezzabile iniziativa di Autostrade per l’Italia sulla valorizzazione dell’immenso patrimonio artistico nostrano (cosa che i francesi fanno da decenni…)
Le Piazze dei Miracoli, del Campo, dell’Anfiteatro, il Duomo di Orvieto, sono tutti luoghi che, appena sbucano da dietro l’angolo di una viuzza medioevale, ti lasciano sgomento, con il groppo in gola in piena Sindrome di Stendhal. Dopo tanto estero, una sana purificazione qua, dietro l’angolo, ci può stare di sicuro.
Il ritorno alla realtà è però altrettanto drastico e sconvolgente. La situazione delle nostre “mulattiere” gestite da ANAS è ai limiti della decenza, spesso oltre. La SS1 Aurelia lungo la costa tirrenica, piuttosto che le varie altisonanti “SGC” (sì, perché uno straniero sa che SGC sta per “Strada di Grande Comunicazione”, come se le autostrade fossero invece dei percorsi locali) sono delle trappole mortali per gomme e sospensioni, oltre che dei pericoli potenzialmente letali per i motociclisti. Mancano i soldi, evidentemente, visto che le Autostrade a pedaggio sono messe molto meglio (a parte i giunti, ma vabbè). Perché non mettere una vignetta annuale, come in Svizzera, Austria o Solvenia?
Ahia l’inverno
Niente da fare, purtroppo l’inverno non è molto amico della mobilità elettrica, bisogna riconoscerlo. Non che la scorsa stagione – né quanto visto fino ad ora – siano stati particolarmente rigidi, anzi, ma già verso lo zero si avvertono i primi sintomi di “letargo” dell’auto elettrica. L’autonomia di percorrenza si riduce vistosamente a causa della minore efficienza del processo chimico che avviene all’interno della batteria, e il riscaldamento dell’abitacolo (naturalmente elettrico) si mangia un bel po’ di kW. In più le giornate corte o nebbiose comportano i fari accesi più a lungo, spesso piove e vanno i tergicristalli, magari il lunotto termico e via così. Inoltre l’aria fredda è più densa e quindi oppone maggiore resistenza aerodinamica al moto del veicolo (lo si nota anche in bicicletta…)
I pneumatici invernali, con i quali ammetto di non aver mai notato apprezzabili differenze di consumo su veicoli tradizionali, qua invece si fanno sentire anche loro. A temperature ancora più basse, parecchio al di sotto dello zero, si dovrebbe iniziare a rilevare pure un aumento dei tempi di ricarica lenta, indice anche qua di una diminuita efficienza, mentre anche la ricarica rapida subisce questa sorte, tant’è che la colonnina, dialogando con la macchina, eroga una potenza minore.
Dulcis in fundo, la rigenerazione in decelerazione o in frenata, che tante soddisfazioni ha dato su percorsi di montagna, è anch’essa limitata dall’efficientissimo sistema di gestione della batteria, per evitare eccessive correnti di ritorno che risulterebbero dannose.
Ma poi succede che in una nebbiosa serata dicembrina prima di uscire dal ristorante avvii da remoto il riscaldamento e ti ritrovi l’auto bella tiepida e con i vetri puliti. E questo non ha prezzo!
Un giorno di ordinaria follia
La drammatica condizione in cui versano molte linee ferroviarie utilizzate dai pendolari in Lombardia sta facendo venire a molti la tentazione di riprendere in mano l’auto. E i recentissimi crolli del prezzo del petrolio potrebbero ahimè contribuire a questa nuova tendenza. Peraltro la sensazione di chi bazzica Milano quotidianamente è quella di una certa diminuzione del traffico veicolare rispetto ai picchi degli anni ’90, grazie ad una serie di lodevoli iniziative tra cui l’efficiente servizio di bike sharing, le piste ciclabili, l’Area C. E sicuramente anche ai costi dei combustibili e della gestione dei veicoli in generale, che hanno portato molte persone a sbarazzarsi della seconda auto per utilizzare i comodi servizi di car sharing. Anche i dati ufficiali confermano una rilevante diminuzione dei veicoli circolanti in città.
Eppure Milano sa ancora sorprendere, soprattutto quando si affronta il micidiale cocktail di pioggia, giornate prenatalizie, cantieri per lavori vari. E tu invece, fiducioso in questo presunto miglioramento della viabilità, caschi nel tranello e ti trovi ad impiegare due ore e mezza per percorrere poco più di 50 km, con le ultime centinaia di metri prima della meta percorsi a ritmi al di là di ogni possibile immaginazione. E mentre osservi gli alberelli della LEAF che crescono inesorabilmente, il ricordo non può che andare al mitico “Un giorno di ordinaria follia” con Michael Douglas.
Sicuramente rimanere piantati in mezzo al traffico con un’elettrica ti fa sentire leggermente meno in colpa, visto che quantomeno non stai contribuendo ad impestare l’aria. E poi c’è il vantaggio di non dover perdere altri minuti alla ricerca di un improbabile e carissimo posteggio, visto che nel caso specifico la colonnina si trovava esattamente sotto al posto dove mi dovevo recare.
Il pensiero va però all’ipotesi di potere accedere, con i mezzi elettrici, alle corsie preferenziali per i mezzi pubblici, come avviene ad esempio in Norvegia. Certo sarebbe bello, anche se le paralisi serie come quella che ho vissuto non lasciano scampo neanche a queste ultime, ma rimango convinto che non sia la strada giusta. Lo sviluppo della mobilità elettrica deve essere incentivato in termini sostitutivi rispetto a quella tradizionale, ma non deve diventare un’alibi per tornare ad incoraggiare la mobilità privata a scapito di quella pubblica o ciclabile. D’altronde ad Oslo le corsie preferenziali sono ormai intasate dai numerosissimi veicoli elettrici, con grande gioia dei conducenti (e passeggeri) dei mezzi pubblici. E questo non va bene.
Osare sempre di più
L’appetito vien mangiando, e dopo aver acquisito un po’ di esperienza è normale provare ad azzardare di più nella sfida con l’autonomia di percorrenza. Questa volta si tratta di 110 km, con un profilo altimetrico complessivamente positivo, ma che prevede il maggiore dislivello (circa 500 m) concentrato negli ultimi 20 km. E’ dunque innanzitutto imprescindibile ricaricare presso la destinazione per poter rientrare a casa, ma soprattutto, rispetto all’altra esperienza simile, qua non si può semplicemente girare indietro lungo la salita, visto che rimarrebbero appunto 90 km quasi completamente in piano. Inoltre il tutto avviene nel Deserto dei Tartari della mobilità elettrica, il Piemonte pressoché privo di colonnine pubbliche.
Nissan propone sul suo sito un pianificatore di itinerario che, tenendo conto anche dell’altimetria, indica se la cosa è fattibile. Il responso è negativo, con una previsione di esaurimento della carica addirittura prima di affrontare la salita finale. La cosa è poco incoraggiante, ma mi rincuora verificare che anche un altro itinerario, già da me svolto senza problemi, viene dato come non fattibile. Qualche consiglio dal gruppo Facebook degli appassionati (che qualcuno a casa mia paragona ai famosi alcoolisti anonimi), la certezza di poter ricaricare “in amicizia” presso la destinazione e si parte, tra gli sfottò di chi già dichiara che non ci verrà a recuperare…
E’ domenica mattina e l’occasione è buona per scegliere la strada statale che costeggia la sponda piemontese del lago Maggiore, tra i grupponi di ciclisti che, ormai in assetto invernale, sciamano su questa grande classica. L’auto non fa sorprese, e arriviamo a destinazione dopo il primo avviso di batteria scarica e il temibile annuncio “potresti non essere in grado di raggiungere la destinazione”, ma con ancora ben 7 km di autonomia residua!
La ricarica si rivela il punto dolente poiché avviene inevitabilmente in modalità lenta. Cinque ore consentono solo di arrivare a 8 tacche sulle 12 totali, ma confidando nella prima parte di discesa ripartiamo. Questa volta si rimane sull’autostrada, che concede un ultimo brivido. Un lungo tratto di salita, al quale generalmente non si fa caso, infligge un duro colpo all’autonomia residua, perché si tratta di 250 m di dislivello percorsi a 80 km/h. Arriviamo a casa con 11 km residui, i vetri che iniziano ad appannarsi, ma la soddisfazione di avercela fatta. Anche perché in caso contrario…
L’orgasmo del ciclista
Ricordo ancora, ai tempi delle mie prime uscite in bici da corsa, l’affermazione lapidaria di uno degli anziani del gruppo: “la discesa è l’orgasmo del ciclista!”
In realtà ho sempre pensato il contrario, essendo un appassionato di salite, e trovando le discese piacevoli sì ma in realtà molto impegnative a causa dell’inevitabile tensione, se si vuole provare a spingere un po’. Dunque per me il vero orgasmo del ciclista è la salita, anche perché è l’arrivo sull’agognata vetta a regalarmi le maggiori emozioni. Alla prima conquista del Mottarone poco che ci mancava che arrivassero i lacrimoni….
Il Mottarone, un luogo mitico della mia infanzia, ma non solo. Lì ho imparato a sciare, quando da Omegna si saliva a “fare un pomeridiano” immediatamente all’uscita da scuola, anche se nevicava grosso così. E lì ci continuo ad andare con la bici, almeno una volta all’anno, partendo da casa. Quasi 100 km in totale, rigorosamente dal lato di Armeno, dove le rampe iniziali ti tagliano letteralmente le gambe.
Dunque quale luogo migliore per testare anche le performance dell’auto elettrica in montagna, ed in particolare la rigenerazione della batteria in discesa? Con un navigatore d’eccezione, Luca, partiamo con la carica al 100% (12 tacche) e con il cavo Schuko nel bagagliaio, anche se non avrei idea di dove andare a ricaricare. L’idea è comunque quella di girare indietro qualora nel corso della salita la batteria dovesse avvicinarsi preoccupantemente a livelli di attenzione.
Invece le cose vanno meglio del previsto. Arriviamo in cima dopo 47,3 km, con 3 tacche e 15 km di percorrenza residua. Ma sappiamo che da quel momento si aprono le “praterie” della rigenerazione. E infatti è così. Le tacche risalgono a 5 e l’autonomia stimata schizza a 70 km. Giungiamo a casa con tre tacche, le stesse che avevamo in cima alla montagna, ma ben 47 km ancora disponibili.
La discesa è forse la situazione dove si apprezzano al massimo le differenze tra un veicolo elettrico e uno tradizionale. Grazie alla rigenerazione, infatti, l’auto elettrica riesce letteralmente ad infilare nella batteria una gran parte dell’energia potenziale accumulata nel corso della salita. E di conseguenza consuma pochissimo i freni, chiamati in causa solo nelle decelerazioni più brusche, e non si sente quella sgradevole puzza di bruciacchiato in fondo alla discesa. Nessuno spreco, insomma.
Un’auto tradizionale invece, innanzitutto brucia carburante anche in discesa (sì, perché il motore è acceso), e poi consuma pastiglie e dischi dei freni, anche se si cerca di utilizzare un po’ di freno motore.
Dunque ci sono tutti i buoni motivi per affermare, questo sì, che “la discesa è l’orgasmo… dell’auto elettrica…”
Pionierismo?
Purtroppo è ancora questa la parola da usare, se parliamo di mobilità elettrica in Italia. Di seguito la breve cronaca di una trasferta un po’ fuori dall’ordinario, che ha messo in luce tutte le difficoltà che bisogna ancora superare.
Oleggio-Piacenza sono esattamente 125 km, una distanza che non avevo ancora mai affrontato con una singola carica. Le condizioni sono ottimali, non serve il climatizzatore e complessivamente il percorso è in discesa. In autostrada non supero mai i 90 km/h! Arrivo alla colonnina esattamente quando parte la prima segnalazione di batteria scarica. In un test precedente avevo percorso quasi altri 30 km da quel momento al collasso totale (modalità tartaruga).
E qua inizia la parte divertente, che fa capire come l’improvvisazione regni sovrana per TUTTE le parti in gioco. Innanzitutto ENEL, che piazza le due colonnine di Piacenza in un modo curioso. Entrambe sulla stessa via, ma una delle due all’interno della zona a traffico limitato, sul cui cartello di accesso i veicoli elettrici non sono naturalmente menzionati. Va da sé che la colonnina fuori dalla ZTL è occupata abusivamente da due veicoli termici, e dunque non ho scelta.
Avvio la carica e chiamo subito i vigili per le due segnalazioni:
- il fatto di essere entrato “abusivamente” nella ZTL per qualche decina di metri per giungere all’unica colonnina disponibile
- la presenza di abusivi nell’altra
Sul primo punto mi invitano ad andare a richiedere un pass, presso un ufficio fortunatamente non lontano da lì (circostanza puramente casuale, quest’ultima). Sul secondo, un po’ scocciato, mi dice che “se hanno tempo” vedranno di attivarsi.
A ben guardare, però, qua tra gli improvvisatori entra in gioco il Comune. I due abusivi non hanno proprio tutti i torti. L’unica indicazione relativa al divieto di sosta è il piccolo cartello sopra alla colonnina, mentre a terra compaiono normalissime strisce blu. Infatti entrambe le auto mostrano bene in vista il regolare tagliando del pagamento della sosta. E il fatto che la colonnina sia contornata da biciclette non aiuta certo a capire bene di che cosa si tratti.
La nota positiva è la gentilezza della signora del’ufficio ZTL che mi ha fatto sul momento il pass giornaliero gratuito, fidandosi della mia autocertificazione. Pass su cui compare la targa del mezzo, ma assolutamente non il fatto che si tratti di un elettrico.
La lezione è che non si può avere fretta, visto che l’imprevisto è sempre dietro l’angolo.
Dopo una ricarica completa il rientro a casa è andato liscio come l’olio, senza la necessità di ulteriori rabbocchi, come invece avrei temuto, visto che stavo “risalendo” la pianura (e con l’elettrico si sentono anche i minimi dislivelli).
Qualche numero per chi fosse interessato. I 125 km sono “costati” 16 kWh assorbiti dalla colonnina ENEL. Dunque circa 0,13 kWh per percorrere 1 km, che equivale ad esempio a tenere acceso per 4 minuti un asciugacapelli da 2 kW. Volendo fare un confronto più consono, ad esempio con un’auto diesel, è come avere imbarcato l’energia contenuta in un litro e mezzo di gasolio. Efficiente!
Malati di Giappone
Molte sarebbero state le cose che avremmo voluto ancora raccontare, da questo punto di vista il Giappone fornisce un sacco di stimoli. Ma tre giorni dopo l’approdo a casa, e con ancora qualche strascico di jet lag serale, troviamo il tempo per una puntata a Palazzo Reale a vedere la mostra di Murakami, uno dei più importanti artisti giapponesi contemporanei. Una visione decisamente consigliata!
A bug’s life
Il film “A bug’s life” rende bene la sensazione che deve provare un insetto di fronte ad un mondo sconfinato ed enorme. L’unico modo che ha per non esser disorientato dall’infinito insostenibile spazio, è quello di occuparsi solo di una piccola porzione di esso, senza avere l’ardire di contenerlo o di voler sollevare la testa.
Sebbene io abbia già visitato più di una megalopoli di svariati milioni di abitanti, la sensazione provata a Tokyo è stata proprio quella di un insetto in una foresta di sequoie. Le strade si aggrovigliavano come liane intorno ai grattacieli, fluttuando sospese sull’acqua a differenti altezze e su di esse i treni e le automobili si incrociavano rincorrendosi in una galassia lontana parecchi anni luce. I grattacieli si perdevano a vista d’occhio rivestiti da milioni di luci e venivano le vertigini a pensare che ad ogni luce corrispondeva una casa e ad ogni casa persone. Un giro sulla ruota panoramica ci ha permesso di osservare la città dall’alto, o meglio, meno dal basso, dandoci l’illusione di poter catturare qualcosa di più di questa città che fuggiva in ogni direzione veloce ed inafferrabile come sfere di mercurio sul pavimento.
Dopo poche ore era già tempo di andare all’aeroporto per tornare a casa. Poche ore dall’arrivo a Tokyo, ma una infinità dal primo giorno in Giappone, ormai tanto lontano da sembrare persino un altro viaggio. O forse Tokyo è davvero l’inizio di un nuovo viaggio: il prossimo in Giappone!