È complicato

È complicato. È molto complicato. Questo ci ripetono le persone che lavorano in Libano da anni. È vero, è complicato capire fino in fondo le dinamiche di questo Paese che ci è stato descritto come il paese dell’illegalità, dove il terzo figlio maschio è di Hezbollah ovvero diventerà un militare, ma non per una legge dello Stato ma per una molto più forte e radicata, quella sociale. Il Paese dove le famiglie hanno in casa una ragazza scelta a catalogo in agenzia e fatta arrivare dal Sudan, dall’Etiopia o dalle Filippine a seconda dello stato sociale della famiglia, che all’arrivo viene privata di passaporto per due anni e in taluni casi viene trattata alla stregua di una serva tanto che talvolta per disperazione si suicida o scappa finendo in giri di sfruttamento ancora peggiori. Tuttavia è anche il paese di centinaia di volontari che lavorano per associazioni locali che si prodigano a favore degli sfollati e delle vittime di violenza ed emarginazione, per provare a cambiare qualcosa, una goccia nel mare forse, ma il cambiamento comincia anche così.

Dopo due giorni a Tiro partiamo per raggiungere Bekaa una località situata nella valle parallela alla costa tra la prima e la seconda quinta di montagne dietro Beirut. Ripassiamo da Sidone ma nelle vie principali e finalmente scorgo splendide rovine di roccaforti che si protendono in mare. Un pellicano, che pareva una statua tanto era immobile, dritto in piedi su un copertone esausto accanto a un banco del pesce, d’un tratto spalanca l’enorme becco forse a reclamare una razione di pesce. Percorriamo il viale attorniati da ambo i lati dalle bandiere gialle di Hezbollah, perché il sud del paese è quello più povero e di prevalenza sunnita. Poco prima di arrivare a Beirut iniziamo a salire verso il colle che ci porterà nella valle di Bekaa. Queste erano le montagne dove crescevano i cedri, ormai confinati in piccole riserve protette, e tra queste c’è il Sannin, un monte venerato in passato dai libanesi. Queste montagne hanno dato il nome al paese stesso (laban significa latte e richiama il colore delle vette innevate) e per quanto spogliate e scavate per esser depredate delle loro ricchezze, hanno ancora un fascino particolare. Hanno il colore della terra arsa dal sole dove il caldo è secco e il cielo è terso. Mentre saliamo, sotto appare evidente la cappa dell’inquinamento che opprime Beirut. Le case che incontriamo sono coperte di pietra e questo le rende meglio inserite nel paesaggio sebbene non vi sia sicuramente un piano di sviluppo edilizio. Gli edifici non sono ammassati e non si vedono in giro montagne di rifiuti, ma si scorgono in lontananza i fumi dei fuochi delle discariche abusive. Ci fermiamo per una sosta lungo la strada a doppia corsia, dove un uomo in un furgone ci prepara un caffè. Pochi minuti e si riparte. Passato il colle e qualche posto di blocco, iniziamo la rapida discesa verso la valle verdeggiante e in breve arriviamo a destinazione. Il posto è un impianto di separazione del rifiuto, esempio virtuoso e fiore all’occhiello dell’area, forse dell’intero Paese.

Accanto all’impianto ci sono vigneti coltivati dai rifugiati siriani che vivono nei campi profughi adiacenti. Dei siriani bisogna sapere che sono circa 1 milione (ovvero un quarto della popolazione in Libano) e che da otto anni vivono in condizioni disumane in attesa di rientrare in patria. Ci sono persone che, arrivate da bambini, si sono trovate adulte senza aver avuto accesso ad istruzione, cure, servizi di base, lavoro e sono privi di una dignità sociale. I genitori sono privati del loro ruolo genitoriale, inermi nel veder crescere i propri figli senza poter far nulla per garantire loro qualche prospettiva futura, se non quella del miraggio del ritorno, chissà dove e chissà quando.

Facciamo i saluti di rito ed entriamo a visitare l’impianto. Subito ci raccontano qual è la situazione dei rifiuti in Libano: il rifiuto è per lo più indifferenziato, la gente non ha interesse a produrne meno e nemmeno a separarlo, montagne di immondizia vengono gettate in discariche abusive o in mare perché ormai queste sono piene e un po’ dovunque si vedono i fumi dei rifiuti che bruciano. Certamente è necessario iniziare sin da subito una campagna di educazione della popolazione e nelle scuole, attraverso pubblicità, laboratori ed eventi che spieghino come ridurre e separare. Si deve ragionare su leggi che permettano di ridurre gli imballi, prevenire il littering, favorire la nascita di impianti in grado di riciclare i materiali e magari in dieci-quindici anni la situazione sarà davvero migliorata. Intanto però bisogna gestire un’emergenza e non sono sicura che impianti come quello di Bekaa, sebbene un’eccellenza ed esempio di best practices sia la soluzione. Almeno per quello che ho visto.

Camion di rifiuti indifferenziati entrano in un capannone dove riversano il carico che viene prelevato da ruspe e caricato dentro macchinari che rompono i sacchetti, fanno una prima grossolana separazione del materiale e riversano il resto in nastri trasportatori. Manualmente uomini e donne separano i diversi materiali. Il materiale riciclabile viene portato in un piazzale esterno, compattato e rimane in attesa di esser prelevato (se non prende fuoco nel frattempo). La parte non riciclabile viene messa nella discarica adiacente e secondo le migliori pratiche viene ricircolato il percolato per produrre ancora più biogas. Forse, perché su questo punto c’erano dei dubbi.E’ impossibile ritenere tale impianto una soluzione “pulita” per la gestione dei rifiuti dopo esserci entrati. Dopo 40 minuti circa io (e non solo io) non ne potevo davvero più. La sensazione era opprimente, la puzza in alcune zone nauseante (sebbene questo impianto sia tutto sommato ben gestito) e passare la giornata a rovistare nell’immondizia è a mio avviso una condanna. In questo luogo i lavoratori erano siriani, per la maggioranza donne, sebbene i rifugiati non potrebbero lavorare. Il motivo è che nessuno vuole lavorare lì, dove solo la rassegnazione ti può portare. Ed è proprio rassegnazione quella che ho visto in una ragazza che per un attimo ha incrociato il suo sguardo con il mio. Circa il beneficio va detto che solo piccoli volumi di materiale riciclabile riescono ad essere separati, mentre il resto va in discarica a occupare suolo e produrre biogas che attualmente non viene utilizzato. La dispersione nell’ambiente del gas in eccesso causa peraltro un danno importante, essendo tale prodotto ad elevato effetto serra. Guardando dall’alto la coltre delle emissioni degli autoveicoli e delle centrali a petrolio su Beirut (ma forse anche in Pianura Padana) mi chiedo infine quanta preoccupazione in più possa destare un termovalorizzatore la cui emissione si ripercuote peraltro in modo infinitesimale su tutti e non in modo spaventoso solo su pochi emarginati. Chissà se chi preferisce queste tecnologie andrebbe mai a lavorare in questi impianti o manderebbe i propri figli.

Tiro

Lasciamo Beirut alla volta di Tiro. L’aspettativa è alta: descritta da tutti come affascinante e piacevole meta turistica, Tiro è la culla della civiltà fenicia e dichiarata dall’UNESCO patrimonio dell’umanità. Tiro, Biblo e Sidone tre nomi che mi echeggiano nella testa come una promessa.

Uscire da Beirut non è stato semplice nell’ora di punta. A questo disordine ci si abitua rapidamente però e in breve pare quasi normale, se non sei l’autista ovviamente. Ad un tratto tutto si blocca perché un camion non passava sotto un ponte stradale. Il mezzo si ferma, due uomini salgono a 4-5 m in cima al carico e iniziano a smontarlo per raggiungere l’altezza che permettesse di passare. In qualche modo il fiume in piena di auto adatta la sua traiettoria intorno all’ostacolo e si riprende il moto.

Il paesaggio di periferia è ancora più desolante e povero e i rifiuti sono dovunque. Ancora posti di blocco, militari, filo spinato e si intravedono alcune canne di carri armati parzialmente nascoste dalla vegetazione di un alveo fluviale. La strada ora serpeggia lungo la costa dove i rifiuti vengono gettati in mare perché i comuni non sanno più dove metterli. D’un tratto appare Sidone. Cerco avidamente di scorgere i segni dell’antico splendore, ma nulla,  quello che vedo pare un castello di sabbia preso a calci da un bambino. Rapidamente Sidone passa e io penso: certamente Tiro sarà differente.

Il percorso si snoda in mezzo a distese di bananeti e finalmente raggiungiamo Tiro. Lasciamo i bagagli alla foresteria al decimo piano di un edificio dal quale si scorgono i resti dell’ippodromo romano (ora coperti dai palchi preparati per il festival), le spiagge e in fondo quelli che in Libano chiamano i territori occupati della Palestina, ovvero Israele, un nome che è meglio non pronunciare in pubblico da queste parti.

Alla sera usciamo a fare un giro a Tiro alla spasmodica ricerca della sua identità, quella dei navigatori che fondarono Cartagine. Immediatamente ci troviamo in mezzo al caos delle macchine, dei motorini e delle musiche arabe che escono a tutto volume dai finestrini delle auto di coloro che non vogliono passare inosservati. L’odore di gas di scarico è pungente e a tratti si mescola alla puzza acre dei rifiuti che si decompongono al sole. L’immondizia è un po’ dovunque e i minareti paiono braccia che cercano di elevare il canto della preghiera più in alto, più vicino a Dio, certamente piú lontano dai rifiuti e dal caos.

I palazzi del  lungomare sono belli e moderni ma basta andare poco oltre per trovare case fatiscenti.Sulla spiaggia al tramonto gruppi di donne arabe fumano il narghilè sedute con i loro lunghi abiti adagiati come corolle sulla sabbia e i bambini giocano a rincorrersi con le onde sul bagnasciuga. E finalmente eccola l’antica Tiro. Soffocata alle spalle dalla città impertinente, stava adagiata sulla spiaggia rivolta verso il mare che le aveva dato un tempo ricchezza e prosperità, in un tramonto meravigliosamente immutato da migliaia di anni.

Beirut

Più volte ho sentito i miei figli ripetere la lezione di storia sui fenici: Tiro, Sidone e Biblo erano splendide città dove gli artigiani inventarono la porpora e da cui commercianti e avventurieri partirono a bordo delle navi di cedro, simbolo del Libano, per esplorare il Mediterraneo e fondare grandi colonie come Cartagine.

Finalmente arriva l’occasione di visitare il Libano e pochi giorni fa io e Mario atterriamo a Beirut. Lo spettacolo appare desolante, caotico e contraddittorio. Palazzi crivellati di colpi, fatiscenti e talvolta parzialmente crollati sono tutt’ora abitati e si alternano a edifici moderni e lussuosi. Lungo le vie sono numerose le postazioni militari e il filo spinato corre lungo quasi tutti i muri. Habibi, habibi si ripetono con sorrisi e stringendosi la mano, ma appena salgono in macchina non esistono più regole se non una: è meglio non reagire a nulla perché i più sono armati e potrebbero sparare. I minareti sfilano veloci dal finestrino e il richiamo alla preghiera si diffonde nell’aria tra le croci delle chiese adiacenti alle moschee. Le donne velate con abiti lunghi e scuri muovono un passo affrettato accanto a ragazze in jeans e maglietta che camminano distrattamente mandando messaggi al cellulare. I motorini guidati da bambini seduti davanti ad uno o due adulti, sfrecciano in tutte le direzioni tra le auto clacsonanti. Nessuno ha il casco o la cintura e talvolta negli incroci soffocati dal traffico, ci sono vigili dei quali ci si accorge solo dopo che si è passati: lui si lamenta, l’autista sorride, habibi, habibi… ed è già il turno del trasgressore successivo, senza che nessuno si sia fermato o abbia dato la precedenza.

Beirut appare come una polveriera: innocua senza una scintilla, esplosiva se la inneschi. Un apparente, fragile equilibrio che nessuno osa toccare.

A volte ritornano

Da viaggiatore cerco di applicare la regola generale di non ritornare in luoghi già visitati, ma ci sono delle eccezioni. Kyoto in particolare è una città magnetica, dove torneresti un sacco di volte per mille motivi. Professionali, per vedere quanto continuano a migliorare sul tema della gestione dei rifiuti (ne parlo qua), sociali, per farsi crogiolare dalla proverbiale ospitalità dei Giapponesi, culturali, per continuare l’esplorazione dei mille templi e santuari che non finiscono mai. Ma anche per ritrovare alcune certezze, come quel buffet all-you-can-eat a chilometro zero, che tante soddisfazioni ci diede nell’estate del 2014.

E in ogni caso di motivi per ritornare in Giappone ne avevamo già parlato a suo tempo: Tokyo e il Monte Fuji. L’esplorazione di Tokyo effettivamente procede, poco alla volta. Invece per il Fuji, diciamo che ci stiamo ancora lavorando…

Cieli azzurri, churrasco e… bicicletta

Brasilia è uno di quei posti dove probabilmente non ci andresti mai di proposito, ma nei quali ti ci imbatti per un impegno di lavoro. Sarebbe meglio non arrivarci proprio nella giornata di disordini associati al caos politico del paese, ma in ogni caso la calma e tranquillità brasiliane si sono ripristinate molto velocemente.


Città futuristica a forma di aereo, inventata dal nulla negli anni ’50 e inaugurata nel 1960, su un altopiano a 1000 m nel centro del Brasile dove è stato anche creato per l’occasione un grande e bellissimo lago artificiale che la contorna. Architetture esuberanti e bianchissime, grandi spazi, strade enormi e dunque inevitabilmente poco intasate dal traffico, che rimane scorrevole. Ma nessuna attenzione per pedoni e soprattutto ciclisti, in un periodo storico dove la prosperità portata dalla disponibilità di petrolio a buon mercato e dall’automobile per tutti aveva accecato anche urbanisti e pianificatori. Neppure luoghi di aggregazione, ma anzi una logica di suddivisione delle differenti attività in zone ben specifiche, che obbliga a muoversi sempre con l’auto per qualsiasi esigenza.

Ora un timido servizio di bike-sharing e qualche percorso ciclabile permettono anche qua di esplorare questi enormi spazi in bicicletta, respirando un’aria molto più pulita che nelle nostre città, ma facendo attenzione al sole che, anche in inverno, ti abbrustolisce facilmente.

 

E’ in definitiva un luogo dove i brasiliani ricchi se la godono, ma dove comunque si può anche finire in una festicciola tipicamente sudamericana all’interno di una pseudo-favela…

 

Achill Island

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In ogni viaggio che si rispetti c’è un luogo che ti fa raggiungere il climax, e ti consente di ritenerti soddisfatto e appagato. Meglio ancora se si tratta di un luogo inaspettato, e non una delle “due stelle del Touring”, perché così l’effetto sorpresa è ancora più forte. Questa volta lo abbiamo trovato ad Achill Island, un’isola collegata alla terraferma da un breve ponte sulla costa occidentale del Mayo. DSCN8841Altissime scogliere sferzate dal vento dell’Atlantico e raggiungibili inerpicandosi su stradine impervie oppure su scoscesi prati fradici d’acqua, immense spiagge che invitano a gelidi bagni in mezzo a surfisti dotati di muta (facendo attenzione alle pericolose correnti di ritorno), un vasto e rilassato campeggio sul machair, un piccolo sparuto luna park felliniano che alle 23 chiude i battenti, un unico affollatissimo pub con musica irlandese. DSCN8870Luoghi senza tempo, estremamente fascinosi, dove nel passato giungeva addirittura una ferrovia, ora trasformata in percorso ciclabile. Ma dove tuttavia i resti del villaggio fantasma di Slievemore, abbandonato a seguito della grande Carestia, ricordano quanto possa essere duro condurre una vita normale da queste parti.

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English Rose

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Con una di quelle deviazioni improvvisate che ti capitano solo in camper, una innocua sosta per il pranzo nella campagna inglese lungo la strada per Holyhead si tramuta in una scoperta sensazionale. Nella sconosciuta località di Tonimageg, poco ad Ovest di Birmingham, piombiamo nel regno della rosa di David Austin, dove stupendi giardini espositivi invasi da oltre 700 varietà di rose allevate con cura maniacale in un contesto 100% British ci convincono ad acquistarne una, che diventerà la mascotte del viaggio

Correva l’anno 1994

Anche questa volta scatta l’inevitabile amarcord. Irlanda 1994, in moto da studenti un po’ sgualdrappati, con un’attrezzatura abbastanza improvvisata. Una decina di giorni quasi sempre sotto la pioggia, ad eccezione della giornata sulle Aran.image
Sul traghetto dell’andata ricordo molto bene i fiumi di birra scura, pinte su pinte ordinate prima ancora che finissero quelle precedenti.
Quest’anno con il comfort del camper, ma la traversata si presenta molto impegnativa, preceduta come è stata da una notte di raffiche di vento al porto di Holyhead. E infatti di pinte di birra nemmeno l’ombra…image

Le bianche scogliere di… Calais

La ricerca della novità è naturalmente il sale di ogni viaggio, ma è anche bello sapere di poter contare su alcune certezze, soprattutto nei lunghi trasferimenti. Quello fino a Calais è una replica di due anni prima, sempre lungo l’itinerario allungato per stare alla larga dalle carissime autostrade francesi.IMG_20150729_191324
Innanzitutto la prima notte sul Passo del San Gottardo, alla ricerca di un po’ di frescura, che quest’anno ci ha però addirittura accolti tra vento, pioggia e nubi basse, con visibilità di pochi metri. Poi i paesini sconosciuti della Germania e del Belgio, lungo il confine con la Francia. Ettlingen, Pirmasens, Bad Bergzabern, Arlon, tutti posti che non degneresti di alcuna attenzione, ma che rivelano sempre qualcosa di interessante, nella loro voglia di mettersi in mostra e valorizzare anche quel poco che c’è.IMG_20150730_204648
E poi il rito di Calais, che prevede l’acquisto del biglietto per un ferry al mattino presto del giorno successivo, e quindi la serata godendosi la luce del Nord e il tramonto sulla Manica cenando sulle bianche scogliere della Cote d’Opale. Albione arriviamo!IMG_20150730_204753

In un paese meraviglioso

A Pasqua, con un cambio di decisione dell’ultimo minuto (il bello del camper…) ci siamo dirottati verso un tour etrusco nell’Italia centrale. Pur da esterofilo convinto quale sono, non posso non riconoscere il valore incommensurabile di ciò che secoli di storia, arte e cultura hanno lasciato in questo maledetto Paese, e ben venga l’apprezzabile iniziativa di Autostrade per l’Italia sulla valorizzazione dell’immenso patrimonio artistico nostrano (cosa che i francesi fanno da decenni…)download

Le Piazze dei Miracoli, del Campo, dell’Anfiteatro, il Duomo di Orvieto, sono tutti luoghi che, appena sbucano da dietro l’angolo di una viuzza medioevale, ti lasciano sgomento, con il groppo in gola in piena Sindrome di Stendhal. Dopo tanto estero, una sana purificazione qua, dietro l’angolo, ci può stare di sicuro.

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Il ritorno alla realtà è però altrettanto drastico e sconvolgente. La situazione delle nostre “mulattiere” gestite da ANAS è ai limiti della decenza, spesso oltre. La SS1 Aurelia lungo la costa tirrenica, piuttosto che le varie altisonanti “SGC” (sì, perché uno straniero sa che SGC sta per “Strada di Grande Comunicazione”, come se le autostrade fossero invece dei percorsi locali) sono delle trappole mortali per gomme e sospensioni, oltre che dei pericoli potenzialmente letali per i motociclisti. Mancano i soldi, evidentemente, visto che le Autostrade a pedaggio sono messe molto meglio (a parte i giunti, ma vabbè). Perché non mettere una vignetta annuale, come in Svizzera, Austria o Solvenia?